La Zia di Carlo - Brandon Thomas

 
Note sull'adattamento
Scritta nella primavera del 1892, presentata a Londra nell'inverno dello stesso anno per una serie record di 1466 rappresentazioni, "La zia di Cario" è un caso unico nella storia del teatro. Il suo autore - Brandon Thomas (1856-1914) - non ha al suo attivo altre opere di una qualche notorietà. Avviato alle costruzioni navali e all'ingegneria civile, aveva lasciato il tutto per il teatro: buon attore, a trentasei anni buttò giù questa farsa, ambientata in un collegio di Oxford, dove un giovane studente è costretto dagli eventi a travestirsi da donna per simulare la presenza di una zia, che doveva arrivare, ma che poi sembra non arrivi, e che alla fine arriva, eccetera eccetera. Scritta quasi come favore per un noto attore comico che amava travestirsi da donna (W. S. Penley) ebbe - come detto - un successo immediato e clamoroso, al di là di ogni ragionevole previsione. "La zia di Carlo" divenne in breve uno dei testi più rappresentati nel mondo (in Italia approdò già nel 1894, al Teatro Manzoni di Milano), dribblando con sovrumana leggerezza tutti gli appunti che le si potevano fare. Perché, in effetti, il testo non presenta particolari valori letterali; la vicenda è prevedibile e scontata, i personaggi che la animano sono puri ingranaggi di un meccanismo, i lazzi hanno un greve sapore goliardico, e via di questo passo, con una tale concordia che denigrare "La zia di Carlo" finisce con l'essere un po' come sparare alla Croce Rossa o portare via le caramelle ai bambini. Eppure, eccoci qua: dopo centodieci anni, a divertirci a lavorare su quel testo, a tradurlo, a metterlo in scena, per riproporlo a un pubblico che - per quanto smaliziatissimo pro-pro-nipote degli spettatori del 1892 - non mancherà di divertirsi come allora e come sempre. Il perché di questa inarrestabile fortuna rientra forse più nelle competenze di un sociologo o di uno psicologo che non di un critico letterario o teatrale. Ma anche questi dovrà arrendersi all'evidenza: "La zia di Carlo" è una sorta di bagno ristoratore in un teatro di spensierata goliardia, che affonda le sue radici nell'essenza stessa del genere comico, dove si ride perché un uomo si traveste da donna, e scappa inseguito da maturi spasimanti, alzando le gonne e mostrando i calzoni. Meccanismi comici che hanno la loro culla nelle origini stesse del teatro, per cui si potrebbero benissimo citare gli esempi di Aristofane e dei Comici dell'Arte. E poi - ancora - un'occasione irripetibile per un attore che sappia ritrovare in sé l'essenza stessa del "far ridere": dal mitico Penley dell'età Vittoriana, a un grande del teatro come John Gielgud (che ne diresse una memorabile edizione nel 1954), fino a questa soglia del Terzo Millennio. Non è un giovane studente che si traveste da "vecchia zia" ma un più maturo maggiordomo in cui meglio possa calarsi il Nostro, (a miglior risalto - aggiungo tra parentesi - della situazioni comiche che ne nascono). Ma la facilità con cui l'intervento è stato operato porta ad un'altra riflessione e ad un altro "perché" sulla vitalità della "Zia di Carlo". Il fatto è che la commedia di Thomas è come un enorme blocco di caratteri comici, di situazioni esilaranti, di gag e di lazzi, di battute esplosive, che ciascuno vi può trarre quello che meglio gli si addice o che vuole. Così come uno scultore trae da un blocco di marmo la statua che ha in mente, o - ancora - come dagli smisurati testi di Shakespeare registi e attori traggono a volte quello che vogliono. E' questo uno dei segreti di questa inimitabile commedia: la capacità di adattarsi a tutte le situazioni, a tutte le culture, a tutti gli interpreti, dando sempre il meglio di sé.
Luigi Lunari